Non so dire cosa scatti nella mente di tanti giornalisti (soprattutto televisivi, perchè è prevalentemente in televisione che la pornografia del dolore vellica il voyeurismo e i bassi istinti del pubblico) quando, al cospetto di un padre o di una madre a cui qualcuno ha ucciso un figlio o una figlia in maniera colposa o dolosa e magari subito dopo la celebrazione del funerale, pongono sadicamente e inverecondamente una - o più - delle domande più idiote, infelici e inopportune che un essere umano possa formulare:
- "Cosa prova in questo momento?"
- "Cosa le manca di più di suo figlio?
- "Come lo ricorda?"
- "È disposto a perdonare?"
- "Vuole dire qualcosa al responsabile dell'accaduto?"
Se capitasse a me di trovarmi in quelle drammatiche circostanze e di sentirmi fare queste domande da un sedicente e secredente giornalista, io, pur essendo una persona dal temperamento assai mite e per nulla incline al turpiloquio, come minimo risponderei sciorinando una teoria di aggettivi niente affatto lusinghieri riferiti all'intelligenza, alla professionalità, alla reputazione e alla moralità dell'interlocutore nonchè della sua famiglia.
Non escludo tuttavia la possibilità che, di fronte a una mancanza di sensibilità e di rispetto di questa portata, se a farmi quelle stupide domande fosse un uomo potrei non riuscire a trattenermi dal rispondere con una repentina sequenza "schiaffo - manrovescio - schiaffo", che date le circostanze sarebbe ben più che giustificata.
Ma come diavolo si fa a chiedere certe cose a delle persone distrutte dal dolore?
È mai possibile che si possa spegnere il cervello e chiedere a una madre che ha appena perso un figlio in circostanze drammatiche che cosa prova e come lo ricorda?
Non parliamo poi del perdono: quello, se arriva, dev'essere il frutto virtuoso di un percorso interiore di accettazione del destino e una libera determinazione di chi ha subito un torto. Non deve e non può essere il frutto marcio di sollecitazioni pressanti fatte su chi è stato colpito da una disgrazia che fiacca anche la personalità più forte, di una sadica sfida a dimostrare di essere un buon cristiano pronto a porgere l'altra guancia e a perdonare perfino l'imperdonabile.
Non parliamo poi del perdono: quello, se arriva, dev'essere il frutto virtuoso di un percorso interiore di accettazione del destino e una libera determinazione di chi ha subito un torto. Non deve e non può essere il frutto marcio di sollecitazioni pressanti fatte su chi è stato colpito da una disgrazia che fiacca anche la personalità più forte, di una sadica sfida a dimostrare di essere un buon cristiano pronto a porgere l'altra guancia e a perdonare perfino l'imperdonabile.
Tempo fa, dopo aver visto al TG1 un giornalista fare queste domande a dei genitori che avevano appena seppellito il figlio, scrissi una e-mail di protesta alla redazione e per conoscenza all'Ordine dei giornalisti. Le lettere furono lette, lo so per certo perchè mi arrivarono le conferme di lettura, ma naturalmente non mi arrivò nessuna spiegazione, nessuna risposta.
Evidentemente la redazione del TG1e l'Ordine dei giornalisti non vedono nulla di disdicevole o di eticamente reprensibile in quelle domande... e se quelle sono domande umanamente accettabili, eticamente irreprensibili ed espressione di una professionalità da esaltare e rivendicare mediante l'appartenenza a un Ordine, io mi convinco sempre di più della necessità di pervenire prima o poi all'abolizione di quello dei giornalisti.
Chapeau a chi qualche decennio fa, vedendoci lungo, se ne uscì con questa sapida battuta:
"Non dite a mia madre che faccio il giornalista: lei è felice perchè crede che io suoni il pianoforte in un bordello"...
2 commenti:
ciao carissimo.intanto un grosso saluto,spero di tornare a confrontarci più spesso sul fol.
condivido appieno la tua opinione sui nostri giornalisti, degli ignoranti coprofili, gente che non scova il proprio errore di sintassi nemmeno rileggendo il servizio prima di pubblicarlo. a loro ascrivo quel fenomeno di impoverimento/asservimento all' inglese della nostra lingua, problema che sento particolarmente e del quale mi piacerebbe conoscere la tua opinione in un' altra occasione.
la frase che citi è il titolo di un famoso saggio di jacques seguela:"non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, lei sa che faccio il pianista in un bordello".
un abbraccio. mamma umiltà.
Ciao a te! È un piacere ritrovarti qui... e comunque a mercati aperti tengo sempre d'occhio la pagina del thread su FOL, ogni tanto dico la mia anche là.
Con i giornalisti non ho ancora finito: prossimamente mi toglierò un altro sassolino (o sassolone) dalla scarpa.
Quanto all'impoverimento della lingua italiana e al sempre più frequente uso di parole in inglese, con me sfondi una porta aperta.
Anche se è una lingua con cui me la cavo discretamente, avrai forse notato che io uso assai di rado parole in inglese e quasi sempre solo se non c'è una corrispondente parola in italiano; anche su FOL faccio spesso ricorso a perifrasi piuttosto che usare l'inglese... e rabbrividisco quando leggo "lossare", "gainare" o simili. Per non parlare dell'amico che la la mania si usare la "k" al posto della "c" anche quando la "k" non sostituisce "ch".
Io penso che la gente infarcisca il proprio eloquio di parole in inglese principalmente per due ragioni: la prima è un malinteso snobismo, la seconda è un appiattimento sulle frasi fatte e sui luoghi comuni. Non secondaria è la pigrizia mentale.
E pensare che la lingua italiana ha tante di quelle sfumature che ognuno potrebbe permettersi il vezzo di cucirsi addosso il proprio stile lessicale.
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